Ho aspettato qualche giorno per metabolizzare bene la situazione che si è creata dopo la strage di Parigi e oggi credo di aver un pensiero ben definito.
Si parte sempre dall’inizio, ma in questo caso partirei da un po’ prima: dai controlli che ci impongono quando si sale su un aereo. (Lo so Ica, ma vai avanti).
Chiunque abbia viaggiato con me negli ultimi anni può testimoniare la mia avversione, la mia contrarietà, a quella manfrina che dobbiamo svolgere ogni volta che ci imbarchiamo su un volo, sia esso per un viaggio di 12 ore sia per una breve tragitto. Levarsi la cintura, le scarpe, mostrare certificati o radiografie se si hanno protesi metalliche… Una messinscena clamorosa che serve solo a trasmettere agli inetti un certo senso di sicurezza. Fino al prossimo aereo che cade che farà ancora più stringere le maglie; body scanner e compagnia cantando. “Ma perché – chiedo sempre ai miei compagni di viaggio – non ci controllano quando prendiamo un treno, un pullman, una metro”
Non possiamo, meglio, non possono controllare tutto. Non possono controllare tutti.
Siamo in una fase storica nella quale la libertà di movimento delle merci e soprattutto delle persone è diventata fondamentale al sostentamento di sé stessa. Quindi possono controllare gli accessi dello stadio ma non possono farlo nei palazzetti dello sport, nei cinema, nei teatri. Ci sarà sempre un luogo “sociale” dove sarà possibile radunarsi senza nessun controllo. Forse arriveranno anche a fare i biglietti nominativi per la multisala, forse metteranno i metal detector anche per accedere ai centri commerciali (già visti in Indonesia), ma tutto questo non eviterà che qualcuno compia un atto come quello di Venerdì 13 Novembre.
Reagire con questa mancanza di sangue freddo come stanno facendo quasi tutti i politici, penso serva solo a loro stessi, al mantenimento del loro potere, a far vedere come sono capaci di affrontare la situazione con determinazione. Il fatto che in meno di 4 giorni trovino un appartamento con dentro 7 terroristi purtroppo non determina nella cosiddetta pubblica opinione un moto di stupore: “come diavolo hanno fatto?”. No determina un plauso scrosciante alle teste di cuoio palestrate che vanno in giro con mitra ancorati alla coscia. Io mi chiedo: ma fino a ieri dove cazzo eravate?
Hai ammazzato 129 dei miei? Bene, vengo li e bombardo a caso. Hai sparato un razzo sui coloni? Vengo lì e distruggo la casa dei tuoi genitori. Hai buttato giù un aereo con una lattina? Vengo li e ti faccio vedere chi sono.
Tutti applaudono alla chiusura delle frontiere, allo stato di emergenza. Tutti gridano che “siamo in guerra”. Ma non credo che a Bamako siano stessa situazione nella quale sono adesso i parigini.
Credo che tutti abbiano diritto alle proprie emozioni, quindi anche ad aver paura di volare, di andare a Parigi un fine settimana, di andare in un supermercato senza che la propria borsa venga controllata da uno svogliato guardiano, ma credo che sia compito di chi “dirige” la baracca fare in modo che queste paure restino nascoste sotto il quotidiano. Oggi invece assistiamo al contrario: una costante iniezione di terrore. Una dose massiccia.
Ho in testa una metafora che credo renda l’idea di quello che voglio dire: tutti noi abbiamo paura del terremoto. Chi lo ha vissuto e ne ha subito i danni, ancora di più. Ma nessuno (?) dorme tutte le notti in un sacco a pelo in un campo per paura che gli crolli la casa sulla testa. Eppure può succedere. Anche stanotte. Se iniziassero a pubblicare articoli e a ricordare che il terremoto è dietro l’angolo, qualcuno inizierebbe senz’altro a dormire in macchina o, quantomeno, vestito e con le scarpe ai piedi.
L’ultimo punto che voglio toccare e quello del facile consenso. In molti, anche il buon Crozza, si sono erti a paladini in “difesa” delle altre stragi. Perchè non piangiamo allo stesso modo i morti del Sinai? Cosa hanno di diverso quelli di Beirut di pochi giorni fa?
Hanno molto di diverso perché siamo diversi noi e viviamo le emozioni in modo diverso. La morte è una. Ogni persona che muore è uguale a un’altra morta a chilometri di distanza ma questo non vuol dire che determini in me le stesse emozioni. Se muore adesso il babbo di un mio compagno dell’asilo che non vedo da 48 anni mi dispiace ma non piango, non gli scrivo, non so nemmeno dove sia. Se muore un congiunto di una persona che vedo tutti i giorni ma con il quale non ho rapporti, mi dispiace un po’ di più perché vedo il suo volto triste ogni mattina. Ma se muore la persona cara di una persona alla quale voglio molto bene, parte del suo dolore diventa anche mio. Una scala di emozioni? Si, esatto. Come quelle che proviamo ogni giorno nei confronti di chi vive intorno a noi con ruoli diversi verso i nostri sentimenti.
Siamo umani. Restiamo umani.